Londra, un'altra volta




A Oxford Circus abbiamo preso uno di quegli autobus rossi a due piani e abbiamo pregato che fosse sufficientemente vuoto perché potessimo conquistarci a poco a poco un posto in prima fila, eravamo diretti ad Aldwych, non lontano da Covent Garden, in uno di quei luoghi dismessi che da circa un anno erano diventati la mia ossessione. Il luogo prefissato era una stazione della metropolitana chiusa al pubblico che avevo scovato nel magazine appiccicoso della British Airways che in volo mi obbligavo a leggere nel tentativo, un po’ ridicolo, di distogliere il pensiero dalle aspettative, dai vuoti spaventosi che la mancanza e un anno di rimandi avevano scavato dentro di me. Alla fermata dell’autobus non ci siamo detti una parola perché il caos di Londra aveva una sua particolare consistenza e finiva per permeare come catrame fresco ogni senso o slancio energetico e il vento che soffiava sul ponte fra Bank e Waterloo faceva il resto e andava a finire quasi sempre così, ci ritrovavamo, che nemmeno ce ne accorgevamo, con questa massa informe di disagio e frustrazione sulle spalle che diventava ad ogni passo più insostenibile, ci trascinavamo di stazione in stazione finchè stremati arrivavamo a quella per Stratford e lì, finalmente, ci lasciavamo sprofondare contro la moquette blu elettrico dei sedili, col chiacchiericcio straniero che si liquefaceva insieme al paesaggio, e stringendoci le mani sudate non potevamo fare a meno di guardare il nostro riflesso contro i vetri. Quel giorno però eravamo diretti ad Aldwych, alla stazione fantasma che alla fine ci siamo anche dimenticati di cercare, nell’accozzaglia di macchine e taxi e umanità risicata di Trafalgar Square l’autobus procedeva fiacco e noi nel frattempo avevamo conquistato la tanto sospirata prima fila e coi piedi schiacciati contro il finestrino ci sfioravamo i polsi ascoltando Damien Rice che cantava di amori predestinati e giurava di non voler cambiare nessuno, con i volti e il busto inclinati l’uno in direzione opposta all’altro, io avevo gli occhi persi nel cielo scolorito, tu invece non ti concentravi quasi mai su quello che fissavi, ma guardavi sempre oltre, il marmo degli edifici monumentali della città che si staglia prepotente contro il vetro e ci obbliga ad accoglierne la visione austera e impersonale, chilometri di asfalto levigato dalla moltitudine, colonne e capitelli, sedi di governo, intarsi dorati sfilano di fronte ai nostri occhi annacquati e finiamo risucchiati anche noi, alla fine, in quel folle caleidoscopio di personalità e paesaggi evanescenti e solo allora, in quella comunione di forme distorte, ci rendiamo conto della grande illusione che si cela dietro alle pareti dai decori alternativi e le insegne luminose e del nulla desolante che traspare da ogni centimetro di asfalto, le entrate trionfali dei parchi e le pubblicità che occupano quattro piani. Ed è sempre in quel momento che mi accorgo di quanto quelle nostre posture innaturali siano però in qualche modo perfettamente strutturate e in quel silenzio in cui a stento tratteniamo le lacrime ho la sensazione di essere in qualche modo inglobata a te e una vocina nella testa mi ripete che – ci siamo legati gli uni agli altri molto tempo fa attraverso le piccole fenditure di dolore e le mancanze e i bisogni a lungo ignorati e oggi non siamo altro che due corpi scollegati con quasi tutto meno che le nostre intime profondità che non si completano ma si cercano e si accettano in nome di quella necessità, un po’ come quando ti abbottoni male il giacchetto, le nostre estremità non combaciano alla perfezione, lo fanno solo in alcuni momenti, in determinati punti, che cambiano continuamente e a noi va bene così.

Chiara

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